domenica 9 maggio 2010

La metafora del Tango. (inedito)


La metafora. La metafora (dal greco μεταφορά, da metaphérō, «io trasporto») è un tropo, ovvero una figura retorica che implica un trasferimento di significato. Si ha quando, al termine che normalmente occuperebbe il posto nella frase, se ne sostituisce un altro la cui "essenza" o funzione va a sovrapporsi a quella del termine originario creando, così, immagini di forte carica espressiva. Differisce dalla similitudine per l'assenza di avverbi di paragone o locuzioni avverbiali ("come"). Insomma ogni cosa ha la sua metafora, come ogni cosa ha un'ombra o un riflesso nello specchio. La metafora consente allacci altrimenti improponibili: " il ruggito dei motori", come se gli oggetti potessero possedere una voce animale. O "sei una mummia" come se le mummie non fossero per definizione defunte e quindi incontrovertibilmente impedite nell'udire la definizione rivolta loro, ecc. Insomma tutto ha una sua metafora. Quel pensiero mi aveva accompagnato per tutta la giornata. Sei bello come il sole, correva come avesse avuto le ali ai piedi, piove a catinelle: ecco questa era una metafora. Era un gioco divertente. Ma per quanto ci avessi pensato non ero riuscito a trovare la metafora del tango. Qualcuno aveva definito il tango " un pensiero triste che si balla". Questa idea era deprimente. Che metafora ne poteva venire fuori? "Sei triste come un tango"? Non andava. Mi venne anche in mente che nel tango è il ballerino che decide di volta in volta quali passi eseguire, ispirato dalla musica e dalla propria fantasia, trasmettendo il movimento alla ballerina. Insomma nel tango i ruoli sono diversi, chiari e complementari: mentre lui si occupa dell’aspetto strutturale e coreografico del ballo, lei affina la percezione del movimento e la capacità di reagire in tempo reale; lui conduce con affidabilità, lei si lascia guidare sforzandosi a ogni passo di intuire le "istruizioni" e i desideri di lui. Quindi una metafora avrebbe potuto essere: "sei docile, una ballerina di tango". Oppure l'inverso: "Sei solido, un ballerino di tango".
Forse poteva andare ma non avrei potuto dirmi soddisfatto.
Camminando senza meta per Buenos Aires, alla fine ero arrivato davanti alla Confiteria Ideal. Ecco forse lì avrebbero potuto dirmi la vera metafora del tango, così mi sarei liberato di quella piccola ossessione e non ci avrei pensato più.
L'Ideal era sempre bellissimo, così ottocentesco, con quella maestosa scala in marmo, il grande ascensore, gli artistici lampadari, le decorazioni in rilievo e le applicazioni bronzee nella sala da the al pian terreno. E poi, al primo piano, la sala da ballo. Un locale storico, un tempio, avrebbe detto qualcuno "fuor di metafora". Un gruppo di ragazze osservava i ballerini in pista. Erano immobili , assorte, ipnotizzate come se stessero osservando qualcosa di irripetibile. "Scusate signorine..." Non un battito di ciglia potè testimoniare che ero stato udito. "Hemm - la tosse talvolta aiuta a vincere l'imbarazzo - scusate, sapreste darmi una definizione che mi permetta di elaborare la metafora del tango?". Le cinque ragazze, in assoluto silenzio, si girarono a guardarmi all'unisono. Anzi mi fissarono per un attimo e poi si guardarono tra loro con aria interrogativa. " Il tango è una creazione a due - disse la più coraggiosa del gruppo fissandomi con due occhi neri da rimescolare il sangue - un pianoforte suonato a quattro mani...che si toccano".
Ero estasiato. "No , macchè, nada! - disse invece una biondina seduta al lato opposto del tavolo - Nel tango si cerca il “momento G “, il momento della massima intesa tra i due ballerini. La perfezione dell’esecuzione si associa ad uno scambio di emozioni, intenso, le stesse nello stesso momento. Elettrizzano a tal punto che la coppia vive quel momento come unico e irrepetibile. E’ l’acme della “magia” del tango - mentre parlava annuiva con convinzione - Dopo ci si sente “appagati” . La metafora quindi era chiara: " Il tango è la ricerca del punto "G" dell'anima".
"Ma nooo - disse la terza ragazza - Il tango è una rappresentazione: una trasformazione su noi stessi, si diventa attori. Inizia a casa: la scelta di quelle particolari calze, quella gonna…. la camicia, le bretelle. Costumi, per rappresentarci. Superata la soglia della Confiteria già siamo altri: liberi, senza le voci interiori che pretendono sempre di farci da guida". Ero perplesso riguardo ale possibilità offerte da questa nuova metafora: "Il tango è Libero e falso". "Chiedo scusa se mi intrometto - fece il ragazzo che evidentemente era lì da qualche parte e aveva ascoltato tutto - Il tango nasce nel momento in cui si decide di andare in milonga e culmina nell’istante che precede il primo invito della serata … Le nostre spinte sensoriali sono dilatate … acquistano fisicità ma anche ansie da prestazione, rossori, tremori. Si ballla e ci si tocca prima: con gli sguardi, le complicità. Il fremito per un istante - si interruppe per dare pathos alla frase - più ...intenso.. più intenso". "Seee - intervenne sbrigativa la prima ragazza - o la delusione per uno mancato".
In un attimo la situazione mi era sfuggita di mano. Altri si erano uniti alla discussione e ora parlavano tutti insieme, concitatamente: "Immergersi ne profumo del tango rende simili ad un bambino pronto a giocare, sapendo che nulla è più serio di un bambino che gioca", "a volte l’eco del tango che ti porti dentro ti permette di ballare anche senza musica" ( in questo senso la metafora era : il tango è silenzio ). "Tango è ballare senza vedere ciò che hai intorno ( in questo senso buio )"." Ma noooo! Non capite niente - strepitò qualcun altro - Il tango è esistere fuori del tempo e dello spazio insieme alla musica". " Assassini!Infami! Siete degli assassini - ora erano urla - il tango è dar l'anima alla partner di cui avverti il battito del cuore".
La rissa era scoppiata improvvisa. Urla, tavoli e sedie in volo. Pugni, bestemmie, graffi. Capelli strappati e sputi. Un secolo di storia, tradizione ed eleganza se ne andava in fumo. Non vidi il finale. Me ne andai mentre in lontananza si udivano le prime sirene della polizia fondersi cin le note di 'Volverás, il celebre tango di Osvaldo Fresedo. Ero soddisfatto: avevo la metafora che ero entrato a cercare. Era sempre stata lì, sotto il mio naso, solo che non riuscivo a vederla. Ora potevo ben dirla: " Il ruggito del tango sveglia anche l'anima di una mummia".

Tortellini. Sempre tortellini! (inedito)


Un rito. Elena è sempre imprevedibile, tranne quando decide di parlarmi per gesti, di provocarmi senza parole, usando simboli tutti nostri. Sa pilotarmi come solo le donne intriganti sanno fare. Lei lo sa, ha perfetta coscienzadi questo suo potere e lo usa. Con Moderazione. Quando a tavola si presenta con quel vestitino anni cinquanta, morbido, leggero, accollato, lungo fino al ginocchio, tanto casto da sembrare ridicolo, non fosse il fatto che, non so come, riesce a mostrare e nascondere le curve a seconda dei suoi movimenti...Lei lo sa come va a finire. Lo fa apposta. Sa che io so. Sa che io so che quando lo indossa dimentica di metterla. La biancheria intendo. E sa bene che quando la guardo girare per casa non riesco a pensare ad altro. Sa che a pranzo mentre assaggio i tortellini penso a quel piccolo paradiso che ci aspetta sino a quando lei deciderà di essersi fatta desiderare abbastanza. Già perchè questo è il rito. I tortellini e quel vestitino rosso vogliono dire che ha voglia di me. No, non sto parlando d'amore ma di sesso. Ecco perchè il tortellino e non magari i bucatini. Il culto del tortellino non è certo un fatto strettamente alimentare, è l’emblema carnoso, carnale, di un nostro segreto gaiamente epicureo. 
E allora io la stuzzico. Infilo un tortellino sulla forchetta e resto immobile come incantato, fissandola ostentatamente, mentre mangia e finge di essere indifferente. Mastico lentamente guardandola dritta negli occhi. Spero che legga la mia fantasia attraverso i miei occhi. Con la mente faccio con la lingua piccoli movimenti circolari attorno al tortellino come se al posto del buco che sta al centro dell pezzetto di pasta infilzato dalla forchetta ci fosse il centro del suo desiderio, l’ombelico del nostro mondo e della Venere che è in lei. Elena mangia in silenzio. Gli occhi bassi nel piatto. Sa che nel momento in cui alzerà lo sguardo troverà il mio piantato nel suo. La mia fantasia è tutta concentrata sul tortellino e continua a solleticare quel piccolo feticcio simbolo del suo e del mio desiderio. So che mi osserva di sottecchi, cercando di non farsi vedere. So che tra poco comincerà a mostrare un lieve rossore sulla fronte e che quando si aggiusterà i capelli sarà il sintomo della sua impazienza. Finge di pulirsi le labbra col tovagliolo. Lo distende davanti alla bocca lasciando scoperti solo gli occhi. Una visione orientaleggiante che mi fa alzare la pressione. So cosa sta facendo dietro lo schermo del tobvagliolo. Sorride estasiata dal desiderio che legge nei miei occhi. E' rossa in volto, gli occhi azzurri piantati nei miei lampeggiano come un temporale all'orizzonte nella notte. Ingoio il tortellino. Sospira. Lascio il piatto e mi avvicino. Lei prende un tortellino dal suo e con le dita me lo porge. Un gesto lento, parte di un rito di adorazione. Un gioco conosciuto. Ora potremmo essere ovunque, anche in un deserto, o in un affolato sottopassaggio del centro, e saremmo soli, al sicuro, a casa. Tiene il tortelino sulla punta di un dito e me lo porge: un dono che, lo sappiamo, simboleggia ben altro. Piano, lentamente, Ancora occhi negli occhi. Silenzio. Non un battito di ciglia. Ingoio il tortellino e vorrei farlo anche col suo dito. Ma non oso. Un nuovo tortellino e un sopiro, più profondo, le soleva il seno sotto il vestito. Inghiotto il tortelino e oso. Comincio a leccarle il dito. Ora Elena ha gli occhi chiusi e mi lascia fare. Respira più velocemente, e si accarezza i capelli. Tra un attimo manderà indietro la testa, schiuderà un poco le labbra sospirando e io mi chinerò a baciarla. Mentre aspetto il suo semaforo verde il sangue mi batte in testa mentre mi concentro sulle sue labbra. La faccio alzare, quasi sollevandola e la stringo, affondo il viso nei suoi capelli, cerco il collo. Piccoli baci, leggeri tratti di lingua. Lei trema e io passo a torturarle l'orecchio. Geme e mi si stringe contro. Sono eccitato ma non smetto di controllarla, di pilotare il nostro "rito del tortellino". Continuo a torturarle il collo, la faccio girare, la spingo contro il tavolo. Sorride. Poco dopo siamo esausti e, come sempre, ci facciamo gli occhi dolci fumando in due la stessa sigaretta. Elena si alza. Rassetta e liscia il suo bel vestitino rosso tutto stropicciato. Mi accarezza. Mi bacia, mi sorride. " Vado ai fornelli - dice maliziosa - stasera tortellini!".

martedì 5 gennaio 2010

Sentimenti: Il Centro. Un racconto di Luigi Grimaldi


Non so cosa mi ha svegliato. La camera è immersa nell’oscurità. Elena dorme, la sento respirare piano in modo regolare e rassicurante. Ho sete. So dove andare a cercare l’acqua. Nel buio, in punta di piedi, mi avvio nella direzione giusta. Le piastrelle sono piacevolmente fresche e lisce sotto la pianta dei piedi. Una bella sensazione. In cucina le foto di Elena sono sul tavolo. Non so dove le abbia scattate. Neppure quando. Le osservo distrattamente. Elena è una brava fotografa. Ha gusto e tecnica. Mi piace osservarla mentre si prepara a scattare: concentrata come un cacciatore che prende la mira, compresa come un felino che deve sferrare il suo attacco: paziente, guarda attraverso l’otturatore e aspetta. Aspetta di vedere quello che vuole lei. Non ha fretta, alza gli occhi, guarda l’ambiente, il contesto, per poi rituffarsi nel mirino. Calma, determinata, sicura che la “sua” foto ormai non può sfuggirle. Strane foto, queste sul tavolo. E’ come se fossero loro a guardare me. Dettagli architettonici. Li osservo e penso che per me non hanno alcun significato. Luci, ombre, oggetti, prospettive sconosciute, tutto senza un nome, un senso, un nesso, una funzione. E’ un altrove senza un quando. E allora perché continuo a fissarle? Perché mentre le osservo mi pare che mi giri la testa, che qualcosa inizi a pulsare piano dentro di me? Strana sensazione. Forse mi trema anche un po’ anche la mano, o forse me lo sono solo immaginato. Continuo a rigirarmele tra le mani e davanti agli occhi. Mi sento ipnotizzato, eppure so di essere lucido e sveglio. Direi perfino che da quelle immagini esca qualcosa. Qualcosa che fluttua verso di me e mi avvolge come una carezza. Una calma totale, come quando l’aria intorno si ferma un attimo prima che scoppi un temporale estivo. Una sensazione meravigliosa. Non capisco, non me lo spiego, non so cosa sia se non che è qualcosa di nuovo ed eccitante. Eppure so che arriva da quelle foto. E’ una carezza, dolce, calda, sensuale e rassicurante, di quelle che ti scaldano l’anima e ti mettono in pace col mondo. Le foto di Elena sono sempre bellissime, ricche di significati, di messaggi e di tutto quanto si cerca normalmente in una bella fotografia. Colori, sensazioni, ricordi. Odori, perfino. Ma queste foto sono diverse, non hanno nulla di tutto questo. So che le ha scattate lei, vedo bene che hanno il suo stile, ma, non so spiegarmi perché siano così diverse. Continuo a passarle, una ad una, da una mano all’altra, osservandole con tutta la concentrazione di cui sono capace a quest’ora della notte, cercando di capire da dove mi arrivi questa intensa emozione, questa ondata di sensazioni così forti, così nuove. C’è una finestra, un balcone pieno di fiori colorati, uno spicchio di cielo, appena sotto un cornicione. Non lo si vede nella foto. Lo si intuisce soltanto, perché sul muro se ne distingue l’ombra. C’è un vicolo, spezzato in due tra luce e ombra, in chiaroscuro, molto contrastato, col riflesso del sole che fa scintillare come uno specchio le pietre del selciato bagnato dalla pioggia. C’è anche una porta, con la tenda antimosche agitata scompostamente dal vento che solleva un foglio di carta che vola via e resta sospeso, “frizzato” accanto a un uomo che non conosco. Guardo, non capisco e le pulsazioni aumentano in frequenza e intensità. C’è differenza tra guardare e vedere e io guardo e guardo ancora quegli scatti senza riuscire a vedere ciò che intuisco. Che posto è? E’ come un déjà vu, ma senza il termine di paragone che di solito lo accompagna. Sono confuso, non capisco e non riesco a distinguere se questa strana emozione, che ormai è tanto potente da essere quasi fisica, si produca dentro o fuori di me. Una emozione che entra o una emozione che esce? Gesù, è vero che è molto tardi e fa caldo, ma sto delirando.

Mi sembra quasi che quelle immagini mi chiamino, come se fossi io stesso dentro quelle foto. Le pulsazioni aumentano ancora e d’un tratto mi sento immerso nelle foto, al punto che non riesco a distinguere tra me che le guardo, mentre le sto tenendo in mano, e me che da dentro la foto mi osservo, seduto nella mia cucina mentre guardo quella stessa foto. Mi vedo ma non percepisco due persone distinte, più che altro mi vedo come un’unica entità in due dimensioni. Ho paura, il cuore mi batte all’impazzata e sento il fiato corto. Voglio alzarmi, tornare subito a letto, cancellare questa improvvisa e inaspettata follia: voglio spezzare l’incantesimo. Cerco di resistere, ma è come se il richiamo delle immagini mi stesse trascinando via, come un vento avvolgente, come il canto di una sirena. Resisto, non voglio lasciarmi andare, non voglio essere inghiottito. Una brutta sensazione talmente forte e intensa, senza tregua, da tenermi inchiodato a un nodo di angoscia che sembra sul punto di spezzarsi, ma che non si spezza. Un nodo talmente presente, tangibile e vero da sembrare un dolore. Sto forse impazzendo? Cerco di stare calmo, di ragionare, nessuno è mai stato inghiottito da una foto. Ma questa forza misteriosa di travolge, mi sommerge, quasi mi soffoca togliendomi le forze e il respiro come una tempesta improvvisa, un caos turbinoso. Un uragano illuminato da bagliori bianchi che lampeggiano sulla casa col balcone e il cornicione. Nello spicchio di cielo le nuvole si inseguono a velocità pazzesca, tanto folle che temo che il cielo si spacchi in due, si apra. Sta per succedere qualcosa, lo sento, e il mio disagio aumenta. Sono davanti alla porta. E’ la tenda antimosche che mi viene incontro a folle velocità, si protende minacciosa verso di me come se i suoi filamenti fossero tentacoli. Ho paura, devo fuggire ma sono paralizzato. Poi la tenda esplode e pezzi di non-so-cosa volano in tutte le direzioni. Eccolo, adesso lo sento distintamente: è quel dolore che cercavo di mettere a fuoco poco fa e che ora si è materializzato. E’ in me, è al centro, ed è da lì che la tempesta si scatena. La chiave è il centro. Un nucleo profondo che trae forza dalla mia immobilità e si trasforma in ondate pulsanti che fanno entrare e uscire il dolore che così finisce per essere dentro e fuori da me allo stesso tempo, ma è anche dentro e fuori le foto e dentro e fuori la mia cucina. Tutto viene risucchiato al centro con violenza. L’onda pulsante, il canto della sirena, i pezzi della tenda, il balcone, la porta, l’uragano stesso che cresce e ora mi pare possa dominare tutto con una forza immensa. Mi schiaccia, tutto intorno a me urla, esplode e si disintegra per ricomporsi improvvisamente tornando indietro, a folle velocità, ancora e sempre al centro. E’ come se stessi per morire. Devo avere urlato. Anna si è precipitata in cucina, ha acceso la luce e mi guarda a bocca aperta, gli occhi sgranati, spettinata e sbigottita.

Sono madido di sudore e la mia faccia probabilmente racconta tutta l’angoscia dell’esperienza che ho appena vissuto. “Che c’è?” – chiede - “stai male?”. Non so cosa rispondere. La guardo ed è come se la vedessi per la prima volta. Non è solo bella, scalza, in mutande e spettinata, è molto di più: è qui. Potrei non vederla e saprei esattamente che ora è qui. “Le foto – balbetto indicandole sul tavolo con un movimento della testa – dove le hai scattate?” Mi guarda allibita. “Come dove le ho scattate? Mi stai prendendo in giro?”. “No, dico sul serio. E’ importante. Dove le hai scattate?”. Elena sembra preoccupata. “Ma, Pier – esclama fissandomi con dolcezza negli occhi - quella è casa nostra!”.

E’ un attimo, un lampo. E’ tutto quel che mi serve per capire. Casa nostra!! Casa nostra come la vede lei e come io non l’ho mai vista. E quelle foto….quelle foto sono quello che c’è dentro i suoi occhi. Quell’ uomo che non conosco sono io. Il caos, la tempesta, quello sconvolgimento terribile.. cos’è accaduto? Ho visto forse per un attimo il mondo coi suoi occhi? Mio Dio, Casa nostra, come se sinora, fino a stanotte, nulla avesse avuto un nome o una funzione, un ricordo, una vera emozione. Ho voglia di abbracciarla, di baciarla, di stringerla. E’ qui. Vorrei farle sentire quanto l’amo e quanto voglio, nonostante la paura, vedere ancora il mondo coi suoi occhi. La stringo. Sorride. “ Sei pazzo”, cinguetta con la voce che fa quando mi vuole. Ci baciamo e il suo calore mi avvolge e mi solleva. Ecco la sensazione. Dentro e fuori! Qual calore esce e entra in me, in lei, come un’onda, una carezza avvolgente. Dio come mi piace il suo odore. E’ la stessa sensazione di prima, ma ora il caos è morto e le ondate pulsanti sono ancora qui, ancora raccolgono i pezzi per spingerli al centro. Tremo, sorridendo: il centro è lei.